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Odissea al reparto Ortopedia dell’Ospedale di Udine
di Ariella Pozzar
Io sono una persona qualunque, che ha avuto la sfortuna di venir investita da un’autovettura mentre guidavo il motorino, ricavandone una gamba fracassata oltre a contusioni varie.
Da questo comincia l’odissea infinita di un degente ricoverato in Ortopedia nell’ospedale di Udine, nel padiglione nuovo n. 15.
Struttura nuovissima, architettonicamente splendida, con entrate e sale di attesa splendide, simili a un aeroporto ultramoderno.
Ma le cose cambiano vissute sulla pelle di un degente ricoverato.
Dopo 15 giorni di degenza faccio le mie osservazioni sui tagli di spesa voluti sulla sanità attuale e finiamola di dire che a Udine va tutto bene!
Per prima cosa vorrei sottolineare che l’amministrazione locale ha voluto agglomerare due reparti in uno, cioè ortopedia più clinica ortopedica, però il personale operativo è stato ridotto a quello di un solo reparto: due soli infermieri per 60 pazienti e un solo termometro per tutto il reparto, che passa da un paziente all’altro!
Gli inevitabili disagi sono all’ordine del giorno: per esempio, se ti devono accompagnare in bagno è probabile che ti dimentichino lì per parecchio tempo, non per noncuranza del personale ma perché, con tutti i campanelli che suonano, gli operatori fanno quel che possono con i pochi strumenti che hanno.
A volte fanno doppi turni, anche di 17 ore, per poter fare con coscienza il loro lavoro che, sottolineo, svolgono con passione, gentilezza e amore.
Io sono una volontaria della mensa della Caritas e vi assicuro che il cibo offerto lì è di gran lunga superiore a quello della mensa che ha vinto l’appalto in ospedale, che invece sembra preparato con alimenti di ultima scelta.
Perché non far concorrere all’appalto anche la Caritas? Almeno si mangerebbe meglio!
Tanto, ormai, si va avanti solo con la carità umana anche se la sanità la si è pagata e ancora la si paga profumatamente.
I pasti serali vengono servirti alle 17.30 perché gli operatori devono finire il servizio alle 19.30, altrimenti la loro ditta deve pagare lo straordinario notturno.
I bagni costruiti nel padiglione nuovo sembrano delle donne truccatissime che però non si lavano da mesi, infatti sono piccoli, con tubi che perdono e porte pesanti, penso ideate da chi non sa cosa vuol dire essere un cittadino normale e disabile, obbligato a ricorrere al servizio pubblico. Sono porte che, se si chiudono sulle carrozzine, probabilmente ti fratturano anche le ossa rimaste sane!
Gli armadi a muro nelle stanze sono strettissimi e quasi inagibili, praticamente non ci sta niente.
Le pulizie sono ridotte al minimo, 2 minuti e mezzo per stanza, l’acqua è un optional.
Quando poi vieni dimesso, ti devi districare con un altro incubo: i dispositivi medici (tutore, carrozzina, stampelle), a cui il malato avrebbe diritto per la riabilitazione, sono stati talmente ridotti che, anche se chi ne ha bisogno poi li restituirebbe, non te li danno.
Quindi, o si può far ricorso ad amici e parenti o bisogna rivolgersi a delle Onlus che, versando un obolo, li impresti.
Ma se uno non ha i soldi per l’obolo?
Quando poi si deve iniziare la riabilitazione, si deve correre su e giù per la fisioterapia: e se qualcuno è da solo, che fa?
Può ricorrere a un’altra Onlus, a pagamento e neanche tanto economico.
Concludo drasticamente: se il mio numero è uscito perché devo essere eliminata prima di andare in pensione, così si risparmia… lo accetto!
Però fatemi l’iniezione letale, non fatemi soffrire, quella non viene negata neanche ai cani!
O volete risparmiare anche lì?
Ariella Pozzar